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Riccardo Dri

Author of Le dodici malattie del cielo

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Di cosa parla “Dia-Ferenze” di Riccardo Dri
“Dia-Ferenze” di Riccardo Dri è un libro complesso in cui saranno tante le domande che si porranno i lettori, interrogativi che sopraggiungeranno con la lettura del testo e che l’autore ci porterà a comprendere.
Nel libro di Riccardo Dri si tocca con mano il persistere di un dualismo in continua lotta, come quello tra Bene e Male, ma anche tra luci e tenebre, tra il tangibile e lo spirituale, tra l’essere e il non essere e il sacro e il non sacro.
Come lo stesso titolo del libro “Dia-Ferenze” dice, in quest’opera si parla di divisione, che è al principio dell’identità, poiché definisce. Senza distinzioni tutto apparirebbe caotico e incomprensibile.
In “Dia-Ferenze” si parla del significato del sacro, dell’importanza di una guida che faccia da intermediario, degli errori mossi dalla religione che hanno portato un vuoto incolmabile nell’uomo.
Ma ciò che sembra volerci dire Riccardo Dri più di ogni altra cosa è che in origine non esistevano le dia-ferenze, poiché all’inizio esisteva un intero, tutte le divisioni sono venute dopo, con il linguaggio che definendo le cose, dandogli un nome, ha crea le dia-ferenza.
Lo scrittore Riccardo Dri prosegue nella sua analisi sulla divisione e la non divisione, partendo dall’origine e cogliendone tutte le sfumature, partendo soprattutto dal pensiero di molti filosofi che si sono occupati dell’argomento.
La conclusione del libro “Dia-Ferenze” conduce il lettore a comprendere come la religione non è più un rifugio confortante per l’anima dell’uomo, ma conduca gli individui ad affrontare la vita in solitudine fino ad avvicinarsi sempre di più alla catastrofe.
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Giuseppe4027 | Mar 30, 2014 |
Quando si afferma, in modo pur irriflesso e affidandosi ad un luogo comune, che la realtà supera la fantasia, si può essere con ciò convinti che il mondo ci riservi ancora ampi spazi di stupore. Quale che sia la causa di tale luogo comune vi è tuttavia una coincidenza, sicuramente accidentale, con un fatto: la storia del passato.

Da Agostino a Nietzsche, i filosofi della storia hanno sempre cercato di dare un senso al succedersi delle generazioni, dalla ”Città di Dio“ all'eterno ritorno dell'uguale, dal progresso lineare alla ricurva linea del circolo (che dissolve il tempo lineare) la temporalità ed i suoi contenuti sono sempre stati oggetto di interrogazioni.

Da queste risposte, in effetti, ci si è sempre aspettati, e ci si aspetta ancora, una indicazione certa per comprendere il significato del nostro vivere. Domande, quindi, non riservate ad un auto-referenziale mondo accademico, ma che ci riguardano tutti da vicino. Questo testo si pone la domanda fondamentale del perché l'uomo teme il cambiamento, al punto di contrastarlo con tutte le sue forze anche davanti alla più chiara evidenza che gli dimostri il contrario.

Sappiamo che l'uomo teme l'ignoto, teme il caos. Scienza, filosofia e religioni sono diverse ma uguali modalità di risposta con cui, in vista di stabilità e ordine, l'essere umano abbozza acquietanti spiegazioni su ciò che non comprende. Solo grazie a questo la sua vita è possibile. Sappiamo ormai da tempo, però, che le spiegazioni, immanenti o trascendenti, non sono state più che una consolazione, il cui nucleo è vuoto. Oggi riteniamo, erroneamente, che la paura dell'ignoto e del caos poteva andare bene per gli antichi. Ma se fosse così perché, allora, l'uomo moderno è ancora afflitto dalla medesima paura, che pur sotto diverse vestigia da quelle di un tempo, comunque si manifesta nel grande disagio della civiltà moderna?

La storia che vi narriamo ora è paradossale, e ciò per due diversi ordini di motivi. Il primo perché si tratta di una storia così fantasiosa da poter fare la fortuna di qualunque scrittore. Avrebbe ben potuto essere ambientata presso una qualche altra aliena civiltà, con ciò non meravigliando nessuno. Ma il paradosso è che, al contrario, essa è accaduta proprio qui, riguardandoci tutti e pesando notevolmente nella storia della nostra specie. Il secondo perché, proprio come vuole l'etimo, è una storia contro (para) l'opinione (doca), l'opinione dei sapienti, dei meno sapienti, a maggior ragione quella delle classi più incolte, che dei cambiamenti delle loro stesse società neppure si accorgono se non per quel cascame che le correnti intellettuali di ogni epoca fanno filtrare dopo un qualche tempo, e cioè quando divengono di uso comune. Come abbiamo potuto essere così distratti ? Come possono degli eventi epocali non produrre alcun mutamento nell'uomo? Proviamo a percorrere alcuni momenti di questa storia.

Vi fu un tempo remoto in cui l'uomo credette sé stesso centro di un universo fatto apposta per lui. E credette anche che la propria vita fosse sorta da un irripetibile atto di creazione di Dio. Vi fu un tempo, poi, in cui l'uomo si pensò ad Egli simile, capace di libera volontà e destinato al dominio sulle altre creature. Tutta l'esperienza di cui era stato capace sembrava stare lì a dimostrarlo: un essere speciale, che la natura aveva dotato di una qualità eminente, l'intelligenza, prodromo della più alta forma della coscienza di sé. Ma ecco che proprio da tale capacità sorsero quelle prime problematiche scoperte che, corrette le antiche credenze, avrebbero di lì a poco smentito le risposte nel frattempo formulate. La conoscenza, infatti, con l'andare del tempo, potenziata anche da nuovi strumenti di osservazione, faceva sì che le risposte sorte dall'esperienza si trovavano sempre in difetto rispetto a quelle successivamente reperite. La ”definitività“ cercata, cioè la stabilità, era destinata a rimanere un sogno, rendendo ragione a quel famoso richiamo che dice: ”l'uomo è l'animale non ancora stabilizzato“.

Questo passaggio, che l'uomo cercò più tardi di rivoltare a proprio vantaggio, fu chiamato ”progresso“, effetto temporale di una catena di antiche circostanze. Nel suo lato oscuro, però, il tempo del progresso non solo smentiva le convinzioni precedenti, ma apriva nuovi scenari in cui il vano amore di se veniva umiliato ad ogni passo. La stabilità faticosamente guadagnata era continuamente minacciata dal nuovo e dall'imprevisto. Nel disagio della civiltà moderna il pensiero deve essere abolito: il perseguimento e la difesa della stabilità avviene attraverso l'applicazione matematica, dove l'ignoto dimette l'angoscia in quanto matematicamente calcolabile e dove la previsione è il calcolo di una variabile. La riduzione del pensiero a pensiero calcolante risolve l'equazione, ma getta l'essere umano in un deserto peggiore: l'estremo tratto della parabola discendente dello spirito.







§ Le tre domande cardinali.



Fare scienza, come ci insegna Prometeo, significa proprio disporre della capacità di prevedere, ed è esattamente questo il problema abissale: vedere in anticipo ed evitare, così, il sopraggiungere dell'evento imprevisto.

Noi considereremo la sorte di quelle domande che, avendo reso l'animale intelligente astrattivo e filosofo, furono la base dell'autocoscienza, dell'orientamento che l'umanità si è data nello spazio e nel tempo: ”dove siamo?“, sembra chiedersi Copernico; ”donde veniamo?“, sembra chiedersi Darwin; ”chi siamo?“, sembra chiedersi Freud. Domande che sicuramente hanno percorso ciascuno di noi; forse qualche temerario ha cercato anche di rispondervi, non importa se senza successo.

E con ciò la conclusione: ogni idea dell'uomo, per quanto animata dalle migliori intenzioni, quando vuole essere l'Idea, non è che una decisione, un atto cioè che scinde una parte con il tutto, dunque un arbitrio o meglio, per dirla più opportunamente con una parola antica, una hybris. Un rapido scorcio di questa storia ce la offre Freud nell' ”Introduzione alla psicoanalisi“. Il testo di Freud in epigrafe ci indica già la sorte di quelle domande che hanno reso l'animale intelligente astrattivo e filosofo. Tre sistemi di pensiero che, grazie agli studi di questi uomini di scienza, sono andati in rovina, tre convulsioni della storia, tre naufragi o, se vogliamo, tre veri e propri tracolli. Qui viene in luce, innanzitutto, la differenza tra persuasione (Peiqw¯) e conoscenza (e)pisth/mh). La conoscenza è il grande nemico che rende inferma la persuasione; la conoscenza smentisce di volta in volta ogni idea che un giorno, e per secoli, era sembrata la più certa e la più alta.

Si potrebbe aggiungere una quarta domanda: cosa ha imparato il genere umano da questi tracolli? Per esempio: ha compreso che verità e certezza sono due cose diverse? E ha compreso che i ”rimedi“ (il sapere in Eschilo, la fede nel cristianesimo, la scienza successivamente, la tecnica oggi) sono destinati, come tutto, al tramonto e poi alla fine e che la stessa sorte tocca a tutte quelle teorie che sostengono una alterità, anziché una parità, dell'uomo nell'universo?



§ Le due vite.



Eraclito aveva visto bene: il mondo è sempre in movimento. L'osservazione diventa preoccupazione già in Platone, che per primo comprese molto bene che nella realtà mondana nulla è immutabile; quell'ossessione alla stabilità che, non trovata nel mondo, fu collocata al di fuori, aprì le porte a quel gioco di simulazioni, di stipule, di formalità e di astrazioni senza le quali ancor oggi sarebbe impossibile mantenersi in vita. Ma per l'uomo moderno, che si vanta di essersi emancipato dal trascendente, o che più verosimilmente non è più in grado di decifrarlo, questo espediente non è più possibile.

Qui si inserisce il grande gioco dell'Io, che salda insieme Freud e Drawin: la civiltà occidentale, grazie alla sua originaria componente ebraico-biblica, ha valorizzato e addirittura esaltato la potenza dell'Io, lasciando sullo sfondo e dimenticando la vita che vive attraverso noi e che ci rende funzionari della specie, perciò evento biologico che prevede la morte come viatico per altre esistenze, e che proprio per questo non ha il benché minimo riguardo per le istanze dell'Io individuo.

Non così quell'altra co-origine del mondo occidentale, quella greca, la quale chiamando fin dall'inizio gli uomini ”mortali“ (qnhtoi¿, oppure brotoi¿), non ha sostanziato gli ”Io“ di infinito desiderio di sé, fino a far loro smarrire il senso del limite e di prefigurare tale limite anche oltre la propria vita. Dunque due aspetti dell'uomo vengono in chiaro: l'Io, e il suo infinito volontaristico desiderio di sé, e la biologia che, con la morte, chiude i conti con l'Io e apre il suo discorso con la specie. Questo ultimo discorso, quello greco-biologico, è ”pre-potente“, così che possiamo dire, con Eschilo, che ”l'arte è un po' più debole della necessità“ e che significa che qualunque artificio escogitiamo, ci abita un'altra vita, indifferente ai nostri desideri e alle nostre aspirazioni. Dimenticarlo fa sempre parte del programma eschileo: è una cieca speranza (tuflaj [...] e)lpi¿daj).

La sopravvivenza allora è quel grande gioco che si attua attraverso quel ”mentire secondo una salda convenzione, di mentire cioè tutti insieme in uno stile vincolante per tutti“.



§ La stabilità



La scoperta dell'assenza di finalità (a)telh/j) e del caso (tu/xh) fu un trasalimento per l'uomo antico. I Greci opposero alla tu/xh gli Dèi, e all'assenza di te/loj il Destino. Nel mondo moderno l'assenza di finalità riemerge. Non c'è più alcuna mèta da raggiungere, se non il potenziamento dei mezzi con cui si raggiungono mète. Il paesaggio muta, ma l'aspettativa di un paesaggio definitivo tramonta, perché l'uomo capisce che non esiste: non vi è più un luogo né pacifico né definitivo, ma la mèta consiste nel vagare stesso, nell'esplorazione del sentiero. Silenziosamente il finalismo si eclissa, per non poter far più ritorno. La causalità ha un brusco sussulto, perché ricompare da un lungo sonno il caso. Antichissimo ospite, riappare nella modernità sotto le spoglie dell'evoluzione, e dell'inconscio contaminando tutte le scienze. Queste non sono ”cause“ classiche, come quelle consegnateci da Aristotele (”Noi riteniamo sia più sapiente chi conosca le cause“), ma sono il paradosso: questa casualità non ci dà conoscenza, ma al contrario ci consegna all'ignoto, all'inesplicabile, all'enigma.

Come i Greci avevano creato un Olimpo per darsi un mondo stabile, così in ogni epoca una qualche figura olimpica di salvezza è stata elaborata contro la percezione del divenire, dell'incerto, dell'illeggibile, dell'irrazionale, dell'ignoto, dell'imprevisto che sopraggiunge a perturbare la quiete. Ed ecco perché ogni nuova scoperta, ogni nuova conoscenza, ogni nuova idea, per il suo effetto dirompente nel mondo delle permanenze, evoca quell'antico conflitto che da sempre ha messo in gioco l'umanità: l'affermazione della permanenza e della fissità e allo stesso tempo la constatazione del sopraggiungere del nuovo e dell'inaspettato: il prevedibile e l'imprevedibile, il caso e la necessità, il movimento e la fissità. Tutto ciò è sorprendente e allo stesso tempo angosciante, e non a caso i Greci avevano coniato, per questo stato, una espressione comune : qaumaston.





§ Idee vive e idee morte.





Non si deve cadere nella trappola delle idee vere e delle idee false. Le delle idee sono state vere finché sono state credute vere, cioè un'idea è stata viva, poi è morta perché travolta da altre dotate di maggior forza. ”Gli scienziati perciò parlano spesso di `un velo che casca dagli occhi' o di `un lampo' che `illumina'“. Ma la seduzione scientifica di un'idea che ne soppianta un'altra non è in grado di fornire quello sguardo ”sovrastorico“ che ci riconduce piuttosto alle ragioni per le quali una certa idea è stata ritenuta vera. Ciò perché anche la scienza è ormai strutturata in modo da non doversi più preoccupare dei suoi abbagli e dei suoi tramonti, ma che al contrario trova la sua vivificazione dall'abbandono di un modello di pensiero a favore di quello venturo, in una progressione indefinita che ne accentua espansione e dominio. La sua struttura non prevede quel nucleo teorico che anima le grandi ideologie che hanno percorso la storia umana, dando origine ai ”mondi“ che la storia stessa ha descritto. Mondi che, pur succedutisi l'uno all'altro, di volta in volta sono stati creduti immutabili, e da questa fede traevano la forza di imporsi offrendo scopi di vita all'umanità. Essa appare perciò conforme, quanto all'abbandono di un modello a favore di un'altro maggiormente esplicativo, ad un criterio atemporale dove le varie fasi che si susseguono sono figure storiche riconducibili ad un disegno globale di conoscenza più vicino all'impostazione hegeliana, dove il negativo è soppiantato da un positivo, e dove il crollo di un'idea non rappresenta un tracollo, ma un trampolino di lancio per l'idea successiva.

Noi vorremo spingerci oltre per dire che l'idea ha relazione solo con il contesto storico che l'ha generata, e da questo acquista significato e perciò leggibilità e persuasività: è una storicità perciò non hegeliana ma, come direbbe Nietzsche, genealogica, dove non ci sono lotte tra positivo e negativo, ma solo tra positivi, e la cui positività consiste nella sopravvivenza di quell'idea che, in quel momento, sembra offrire maggiori garanzie di vita all'uomo il quale, proprio per questo, la mette al mondo e la mantiene finché possibile. La sopravvivenza di questa idea è dovuta a quella particolare contingenza, che può durare anche secoli, che vede il percorso vitale di essa come il ”momentaneo immutabile“ che conserva. Dunque nessuna epoca ha generato ”la verità“, ma ha creduto in quella transeunte verità che in quel momento storico era necessaria alla vita, finché un altro ”velo“ non cadrà dagli occhi per far riprendere il processo.

Privo della possibilità di avere esperienza del Tutto, proprio in quanto l'uomo per natura è inserito nella processualità, la sua storia oggi ha mostrato anche l'incapacità del suo pensiero, proprio a prescindere dall'esperienza, di percepire il Tutto idealmente, a partire dalla propria finitudine e quindi dalla propria parzialità all'interno della Casa che lo ospita. Finché il pensiero moderno si attarda alle misurazioni quantitative, l'uomo perde la qualità del suo esistere: dunque ogni sua idea non sarà che un'idea-tampone che un'epoca dischiude ma che la successiva inghiotte.





§ Siamo sempre platonici



Dobbiamo negare che in questo testo si voglia dar credito a Copernico per screditare i tolemaici, o a Darwin per screditare i creazionisti, o a Jung per screditare Freud. Si è sempre platonici quando si oppone un mondo vero ad un mondo apparente, un sistema tolemaico opposto ad un sistema copernicano, una creazione divina ad un'evoluzione della specie, un mondo latente inconscio ad un mondo apparente palese.

Il mondo delle opposizioni polari che Platone ha scoperto, il suo altro (eÀteron) rispetto al contrario (e)nanti¿on), il suo retro-mondo immutabile rispetto al nostro vivere diveniente, non ci ha dato la formula per la comprensione del mondo, ma il rimedio, quanto alle intenzioni, per toglierci dai pasticci del divenire e l'effetto, quanto al risultato, di radicare l'intero pensiero occidentale alla simbiotica coppia del vero e del falso, coppia che per lo più non allude mai ad un ”vero“, ma semmai ad un ”esatto“, cioè ad una congruenza tra premesse e conseguenze, dove queste ultime sono già anticipate nelle premesse. Queste si sono chiamate ”verità di ragione“, una denominazione perfetta quanto al loro programma operativo. Di più: ci ha fatto smarrire il sentiero del giorno che Parmenide aveva annunciato, aprendo le porte all'interpretazione nichilistica dell'esistenza e di conseguenza ai contenuti particolari ai quali siamo saldamente legati, in opposizione l'uno con l'altro, dove anche e forse soprattutto il senso della scoperta scientifica non allude più allo stupore originario (quell'ambiguo qaumaston visto poc'anzi), ma si preoccupa solo di soppiantare ciò che, divenuto obsoleto, andrà a far parte di quell'ormai immenso serbatoio del ”falso“ di cui può occuparsi solo la storiografia. La scoperta scientifica può smentirsi senza soffrire, al contrario la dottrina ”immutabile“ e ”definitiva“, come il geocentrismo, il creazionismo e l'egologia, quando si incontrano davanti allo specchio dell'errore, tramontano in modo traumatico, perché non è l'idea scientifica che crolla, ma un intero mondo trascinato da quell'idea da cui era sostenuto: perciò crolla un'organizzazione di vita, un orizzonte, una metafisica, perché se il mondo non dipende più né da Dio né dall'uomo, ma da un apparato concettuale autonomizzato privo di escatologia, l'esistenza umana viene emarginata nell'insignificanza.



§ Un grande punto interrogativo



Si intenderebbe male questo testo nel volervi trovare una critica pessimistica della storia della civiltà (il naufragio, il tracollo, la sconfitta) o un discorso entusiastico sulla scienza (il progresso che, riconosciuto l'errore, passato lo stupore, riconduce l'uomo nel sentiero della conoscenza veritiera). In realtà il tracollo è un grande momento di crescita perché, mettendoci di fronte a questi tre grandi eventi epocali, mostra di essi il loro mitologema, il quale non è né il senso della sconfitta né quello del superamento, ma è un grande punto interrogativo sull'ordine descrittivo del mondo che abitiamo, sul fondamento non storico della storia (che non esiste perché tale fondamento è altrettanto storico), sulle responsabilità narrative del linguaggio che finora, anticipando significati già decisi, ha descritto ogni epoca restituendoci un mondo del tutto simile a quel cespuglio dove prima abbiamo nascosto qualcosa per poi, vittoriosamente e con grande enfasi, ritrovarla.

Nessuno, infatti, dispone di un mondo se non perché è disposto da un linguaggio che quel mondo descrive. Dunque non è il mondo che ci sta di fronte, ma il risultato della sua descrizione. L'espressione ”il mondo è cambiato“ allora significa soltanto che la ”descrizione del mondo“ è cambiata. La stabilità è provvisoria perché è stata raggiunta solo all'interno di quella descrizione di cui è stata ospite, e non può valere per altre, con le quali non ha più alcuna coerenza. La revocabilità di un ordine è strettamente proporzionale alla limitatezza dei discorsi che possono prodursi, e in ciò facendo dar vita ai mondi che la storia ha dispiegato. Il tracollo, la crisi può venire esattamente in questo passaggio, laddove il linguaggio che ha descritto un orizzonte di esistenza si trova povero e incapace di articolarsi di fronte ad un nuovo orizzonte per il quale non si dispone ancora di parole, e che proprio per questo ancora non c'è.

Se è vero che ”nessuna cosa è dove la parola manca“, proprio questa povertà ed incapacità di produrre realtà fuori del proprio ordine, e cioè proprio la negazione della possibilità di ritrovare dietro al cespuglio qualcosa che non si è ancora fatto in tempo a nascondere, si tramuta in quel sussulto della coscienza (qui chiamato tracollo) che è crisi, cioè separazione, scelta, discrimine (kri¿nw), dove l'urgenza consiste nel trovare parole nuove da adoperare una volta varcato il confine. Tra una sponda e l'altra del confine, tra mondi ed epoche Nietzsche propone una danza, vedendo l'uomo come correlativo ai confini che esplora. Dunque c'è un tempo per l'uomo, ma non un luogo (u-topòs): il Figlio dell'uomo ”non ha dove posare il capo“, perché semplicemente va, è ”tra i luoghi“, vagabonda perché il confine è cancellato.

Quindi solo un metalinguaggio ci consente di comprendere i vari linguaggi apparsi nella storia, origine delle descrizioni, e descrizioni che sono origine delle epoche. In effetti non esiste né può esistere un ”passato“ che sia autenticamente passato, perché il linguaggio che lo ha espresso nasce sempre e comunque dall'animo umano, che perciò gode di quella continuità che una artificiosa scissione tra le epoche farebbe venir meno. Questa continuità è la memoria, e non solo quella cosciente, ma anche quella meno nota che non è amica del giorno, che sfugge a qualunque tentativo di razionalizzazione e il cui linguaggio sorgivo non si perde nella particolarità delle epoche. Nel vagabondare tra i luoghi l'uomo li percorre tutti, si sofferma ora in uno, ora nell'altro, ma infine sempre va, recando con sé il fardello e la catena della sua memoria.



§ L'estraniazione.



Lo abbiamo sentito: arroganza, pretese, sogni di dominio infranti da mortificazioni e umiliazioni. Un manifesto di impatto con cui, in poche battute, si scrive un severo e granitico giudizio a cui l'umanità resta inchiodata. Ma, si era preannunciato, questa è una storia fantasiosa e paradossale. Se non fosse mai accaduta molto difficilmente un qualche scrittore avrebbe potuto approdare a tanto ma, per la considerazione che è dovuta agli scrittori, potrebbe essere uscita dalla penna di Asimov se non, in forma meno descrittiva ma ancora più meditabonda, da quella di Kafka. Il fatto è che tutto quanto abbiamo ascoltato ha già fatto parte della nostra storia, non ce ne siamo estraniati abbastanza da poterla vedere dall'alto, non ci sembra, grazie a tale assuefazione, né così fantasiosa né così paradossale. La nostra coscienza restringe il campo del Tutto al nostro essere qui - ora, e infine assolutizza tale qui - ora rendendo l'illimitata ricchezza del mondo come correlativa a questa coscienza stessa. Se mai un tale sentimento ci ha sorpreso, se mai grazie a questo ci siamo sentiti ospiti indesiderati e stranieri in ciò che credevamo casa nostra, allora abbiamo attraversato lo spaesamento, che per Heidegger è ”un modo fondamentale di essere-nel-mondo, anche se è quotidianamente coperto […] lo spaesamento incalza l'Esserci e minaccia il suo oblìo nella perdizione“. Lo ”spaesamento“ c'è ed è il sintomo del nostro male, ma è quotidianamente coperto, al punto che la storia ha perduto il suo potere di trasalimento e, per conseguenza, non ci inquieta più, e perciò nulla ci spinge ad andare oltre per guardare il tutto con altri occhi, quelli estraniati dello straniero, che si meraviglia delle novità che per gli altri sono tutte note ovvietà.

Solo una visione unitaria e soprattutto estraniata dei tre tracolli può farci scorgere la singolarità e l'incredibilità di questi eventi nella storia dell'uomo, farci recuperare uno stupore che non assaporavamo da tanto tempo. L'impatto dirompente, rivoluzionario, a volte distruttivo di questi tre eventi epocali ebbe il destino, come ogni grande evento, di esaurire, con il passare del tempo, la sua potenza, e di acquietarsi nella coscienza collettiva come ”un fatto del passato“ che, come tanti altri, non esercita più alcuna influenza sulla comunità umana; ciò è quanto comunemente si avverte: l'indifferenza è il nostro più recente espediente ed è il risultato riuscito di una alienazione radicale. L'estraneità da sé del nostro vivere dissipa l'angoscia, ma apre l'alienazione dello straniero il quale, non avvertendo più la sua estraniazione, finisce per dimenticare la propria origine. Dovremmo estraniarci dalla cattiva estraniazione per ritornare a stupirci come accade allo straniero. Il pericolo è il perdersi all'interno di un panorama di scadimento, cioè risolversi nell'esser `l'un con l'altro' in quanto condotto nella chiacchiera, nella curiosità e nell'ambiguità. La narrazione di questa storia perciò è anche un tentativo di riappropriazione, non una descrizione di rivoluzioni dell'umanità più o meno stupefacenti, ovvero una comprensione dello stupore per riappropriarlo al nostro vivere, perché se la storia non è ancora finita, e noi vi siamo ancora dentro, dobbiamo aspettarci dell'altro e saperlo affrontare con una diversa coscienza; quella coscienza, cioè, che può autenticamente renderci attori, piuttosto che spettatori o, peggio, spettatori-vittime. Ciò è più urgente proprio oggi, allorché da più parti si guarda al futuro con l'apprensione dovuta a presagi nucleari o ecologici.

Ma perché ciò accada serve imparare a pensare in quella forma autentica di pensiero che è deputata alla creazione. Creare innanzitutto coscienza, rispondere, come direbbe Heidegger, all'appello.

Con questa circospezione abbiamo scelto di dare una trattazione unitaria di questi tre grandi uomini della scienza e del pensiero, così diversi nel loro campo d'indagine e distanti anche nel tempo, con ciò perfettamente consapevoli di non aver fatto alcuna scelta originale, ma solo per non far venir meno l'insistenza con cui dobbiamo ricordare. Essi sono il simbolo storico, e quindi a nostro avviso perpetuo, di uno smascheramento, con il quale viene in luce l'illusione che anima l'uomo: essere il centro dell'universo, essere un figlio di Dio, essere l'autore delle proprie scelte. In senso unitario: perseguire la propria illusione di potenza. Queste pretese sono andate tutte deluse dalle scoperte scientifiche successive, che hanno lasciato un monito, per lo più inascoltato, per il fare di domani.

Scopo di questo testo è ripercorrere passo a passo i momenti storici e di pensiero che hanno costituito i tre principali tracolli dell'umanità per vedere se, all'ombra di essi, l'uomo non sia stato invece beffato da un Destino che gli ha voluto nascondere tutto e se, quanto alla Verità, l'umanità non solo non ne sia mai venuta in possesso, ma non ne abbia neppure gettato lo sguardo. Così, sembra, ci ammoniscono gli antichi.
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riccardodri | Sep 1, 2008 |
Dri R.
Sovera Multimedia, Roma, 2006
Un testo dal titolo (e poi anche dal contenuto) assai affascinante che indaga la tortuosa ricerca di senso dell’uomo occidentale, attraverso le concezioni greca, ebraica, cristiana, la cui meta pare sempre più lontana.
Il disagio, l’angoscia, che vengono così vissuti, sono letti dall’Autore come il sintomo di una malattia più profonda che affligge l’individuo contemporaneo.
Le risposte date a questa ricerca di senso si sono rivelate, una dopo l’altra, insoddisfacenti, e la continua ricerca è per certi versi metafora della vita stessa, rispetto alla quale l’uomo, nel pieno dell’angoscia e della frustrazione, vorrebbe trovare soluzioni stabili ed esaurienti.
Ma questo non solo sarebbe contrario alla vita, ma arriverebbe ad oggettivizzare l’uomo stesso, esacerbando il suo malessere.
L’Autore, noto filosofo, allievo di Galimberti e Severino, non ambisce a fornire risposte, ma si limita a porre interrogativi e spunti di riflessione.
Un testo piuttosto complesso, analitico, però allo stesso tempo concreto. Una declinazione inconsueta per la filosofia oggi, che merita la dovuta attenzione.
Anna Fata

Da: http://www.armoniabenessere.it/recensioni/libri/12_malattie.html
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riccardodri | Sep 1, 2008 |

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